LA DISILLUSIONE POLITICA, MEZZO PER OTTENERE IL POTERE

La frase attribuita a Macchiavelli (Il fine giustifica i mezzi) è una dei più volgari errori storici, infatti, questa affermazione non ha riscontro né nel Principe né in altre opere dell’autore.
Il motivo del perpetuarsi dell’errore è riconducibile in sostanza all’interpretazione frettolosa, superficiale o anche malevola e volutamente mistificatoria di un passo del 18o capitolo del Principe: «…nelle azioni […] massime de’ principi […] si guarda al fine.»
Il “fine” cui guardare, nell’ottica machiavelliana, è di natura esclusivamente politica e consiste nel raggiungimento del potere, nel suo mantenimento e nella solidità dello stato.

Unicamente a tale scopo il principe deve saper «entrare nel male, necessitato»: nessuna sua azione, neppure la più riprovevole, può essere condannata se volta a «vincere e mantenere lo stato»: «i mezzi saranno sempre ritenuti onorevoli e da ciascuno laudati».
La stabilità, la grandezza ed il prestigio dello stato assumono pertanto, nel pensiero del Nostro, il valore di un ideale supremo e assoluto, di un mito in nome del quale tutto si giustifica.
Nell’ideale Macchiavelliano, tuttavia egli considera la natura umana in modo assolutamente cinico e realistico: “ I miei precetti, egli insiste ripetutamente, non sarebbero buoni «se gli uomini fussino tutti buoni». Invece «nel mondo non è se non vulgo»: gli esseri umani sono (cap.17o) «ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno», pronti a sostenerti nella buona sorte, a rivoltartisi contro nella cattiva. E «sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio».

Di fatto, la suprema idea ha una valenza negativa solo ed esclusivamente perché sono il depositario del potere e nel contempo i suoi sostenitori ad essere negativi e malvagi, financo coloro che interpretano e l’umanità tutta.
Questo preambolo ha significato attuale e prevalente in un momento storico e politico che vede una profonda disillusione dell’elettorato e del popolo verso lo Stato e verso ogni figura politica, sia essa di maggioranza che d’opposizione.
Questa disillusione ha tra le sue motivazioni un progressivo imbarbarimento morale ed intellettuale della classe dirigente del paese, nella sua accezione più completa e generale, comprendente sia la dirigenza economica e finanziaria che quella politica e religiosa.
Il risultato è un sempre più evidente lassismo del popolo di fronte alle velleità ed agli assurdi comportamenti della dirigenza, elevato al quadrato in concomitanza di elezioni, e consultazioni popolari.

Assistiamo a questo processo di disillusione anche all’interno di partiti politici di rara longevità come la Lega Nord, che ha da poco chiamato alle urne i suoi militanti per decidere quale sarebbe stato il prossimo segretario di partito.
La situazione in Lega appare essere speculare se non peggiore a quelle dei partiti di maggior allure a livello nazionale, con oltre 3000 militanti espulsi o volontariamente esuli in appena 5 anni e con quasi il 30% degli stessi che hanno deciso di non partecipare alla consultazione interna ci chiediamo se non sia, quella di Matteo Salvini, una vittoria di Pirro.

A questo enorme numero di indifferenti va infatti aggiunto il 17,3% che Gianni Fava ha faticosamente sottratto al vincitore, a conti fatti possiamo tranquillamente affermare che la somma tra i vari addendi ci preoccupa e ci inquieta, se tiriamo una riga e facciamo i conti della serva, Salvini, con ogni probabilità avrebbe avuto enormi difficoltà a vincere se tra i militanti non si fosse diffuso negli anni un senso di profondo scoramento nei confronti del partito e dei suoi rappresentanti.

Come sempre ci chiediamo come fece Cicerone: Qui Bono?, a Chi giova?

Giova al potere ed alla sua logica autoconservativa, che vede attualmente in persone come Renzi e  Salvini, due facce della stessa medaglia che riequilibrano la grande equazione del divide et impera, tanto cara ai potenti.

Christian Longatti
Andrea Gunetti

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