QUANDO UN POPOLO COLTO E’ PADRONE DELLA PROPRIA LINGUA

Tullio de Mauro (1932-2017), professore emerito di linguistica generale presso l’Università La Sapienza di Roma, nella premessa del saggio “La Fatica del Dire e del Capire”, affermò: 

Secondo i neurologi noi utilizziamo meno del 10% dei neuroni di cui disponiamo. Analogamente, utilizziamo solo in parte le potenzialità di comunicazione che ci offre una lingua. Possiamo fare ancora molti passi avanti sulla via della comprensione reciproca e dell’intelligenza del mondo, purché l’uso del linguaggio sia anche educazione alla parola. 

Tra i meandri dell’armamentario linguistico di cui ciascun essere umano dispone, sorge sovente la tendenza ad utilizzare sempre le stesse parole e strutture, sia per ragioni di immediatezza, sia, a volte, per pigrizia. Questo vale anche per i verbi e i tempi utilizzati. Ciascuna struttura utilizzata rappresenta il modo in cui si percepisce e comprende la realtà, nonché lo stato d’animo con cui si inviano le informazioni: certezza – dubbio; realtà – desiderio. Tali informazioni, in italiano, si inviano attraverso i modi del verbo, di cui oggi, si intende ripassare, approfondire e analizzare sotto un’altra prospettiva il modo indicativo e il modo congiuntivo.

Usiamo il modo indicativo tutte le volte che intendiamo esprimere certezza, realtà constatate e appurate, esattezza; trasmettiamo sicurezza, in bene e in male, di qualcosa che accade nel presente, nel passato e nel futuro e, comunque vada, avrete comunque ragione solo dichiarando un chiaro intento che, con tutta probabilità, ha una buona percentuale di realizzazione.

Es: “va tutto bene/male”, “è andato tutto bene/male”, “andrà tutto bene/male”
è una bella / brutta serata”, “è stata una bella / brutta serata”, “sarà una bella / brutta serata”

Usiamo il modo congiuntivo tutte le volte che intendiamo esprimere dubbi, realtà incerte, volontà, esortazione, ipotesi; è il modo del salto nel vuoto che, in bene e in male, apre la porta alla possibilità nel cambiamento e in un risvolto diverso di qualunque circostanza; è il modo con cui rendiamo un sogno concreto; è il modo della speranza, che ci costringe a guardare dentro il nostro stato d’animo, assieme al condizionale. Il condizionale è sempre usato nella principale, il congiuntivo sempre nella secondaria e introdotto dalla particella “se” per il tempo passato, “che” per il tempo presente. 

Es: “Se volessi, potresti cambiare la tua vita”
“Speriamo che sia una bella serata!”
Se andasse tutto come deve andare, avrei mille progetti da realizzare”

Alcuni studiosi dichiarano nell’italiano contemporaneo “la morte del congiuntivo”. È risaputo che ad ogni ciclo corrisponda morte e nascita di qualcosa e questo vale anche per il nostro sistema linguistico. Non tutte le morti sono positive, né tantomeno le nascite: indurre la morte di un modo verbale carico di tutte queste sfumature per pigrizia, ignoranza, in nome di un’immediatezza frivola, che cerca di ancorarsi a qualcosa che non esiste, ma che con la possibilità si può creare e rendere reale, significa perdere una fetta del patrimonio linguistico di cui oggi ancora disponiamo. 

L’Italia contemporanea sta perdendo progressivamente la speranza, e questo lo riversa anche dichiarando, prima ancora la morte di un modo di esprimersi, la morte di ogni sogno, sentimento e possibilità. In questo momento di quarantena, (che non è una prigione, ma una possibilità!) che ognuno si sforzi a guardare oltre il proprio naso, “oltre” il palazzo del vicino che ognuno ha di fronte a sé, di qualsiasi confine si tratti. La libertà nel creare parole nuove ed essere in grado di utilizzare tutte le strutture al fine di rendere al meglio un concetto nella nostra lingua, è sintomo di un popolo libero, colto e responsabile. Emil Cioran, non a caso affermò “Non si vive in un Paese, si vive in una lingua”.

Roberta Bagnulo 

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