RIMETTIAMOCI, INSIEME, IN CAMMINO

CORONAVIRUS ED IL VIAGGIO DELL’EROE.

Tra Il novecento e Il nuovo millennio, un salto nel buio.

Un vuoto che pian piano ha risucchiato ognuno di noi nel palmo della mano.

Non più indagato per chiedere una risposta al nostro bisogno di vedere l’anteprima della nostra vita futura.

Ci hanno rubato anche il palmo della mano.

Al suo posto lo schermo dello smartphone, in cui ci siamo persi, potendo scongiurare la condanna di un passato che non vogliamo più rivivere, con la paura di affrontare la sicurezza dell’incertezza di un futuro che non riusciamo più a sognare, inchiodati ad un presente scandito da un “touch” che permette di trovare in pochi secondi l’ago nel pagliaio.
Un filo d’Arianna digitale che sta trasformando i naviganti in burattini senza fili.

Alla ricerca della viralità, nella prospettiva che più like, più visualizzazioni riusciamo a ottenere, più la realtà postata viene certificata.
La realtà è dall’altra parte dello schermo, possiamo solo postarla e attendere il risultato della “condivisione”.
Solo due possibilità rimaste.
Esibizionismo e voyerismo.

Pare che la nostra esistenza sia tale se passata al vaglio di uno sconosciuto digitale, un Altro che come noi dall’altra parte dello schermo cerca di diventare virale, tradursi in un virus social, che sempre più like e visualizzazioni regali. 

Ma chi la fa l’aspetti, in una logica di sincronicità, come San Francesco chiedendo il motivo per cui la sua stamberga veniva bruciata e il suo migliore amico ammazzato, ammise che la risposta altro non è che in se stessi, nel proprio agire.

Nel suo volere appassionato di far conoscere la sua parola di amore per l’Altro, la troppa foga, quasi fosse una sorta di beata aggressività, che mise nel suo procedere tra le anime perse.

E aggressività richiamò verso di sé.

Così la ricerca della viralità che magicamente ci elevi nell’olimpo dei motori di ricerca, ha richiamato a noi il virus  che ci sta a sua volta catapultando in un mondo dimenticato e rimasto nel secolo precedente.
Il virus tanto agognato è arrivato ed è uscito dallo schermo.
Ci chiede di togliere lo sguardo dal nostro ombelico perennemente connesso, costringendoci a passare in modalità quarantena, per scontare la distrazione fatale da noi stessi.
Cos’è che ci fa morire a vent’anni anche se viviamo sino a cento? Cantava Lucio Dalla.

La risposta è arrivata. 

Una vita senza l’Altro, senza più un inizio e una fine, uno spazio e un tempo, un prima e un dopo, un interno e un esterno, un mondo interiore e una socialità, Il piacere di condividere un’amicizia, una relazione significante, unica e preziosa con la quale confidarsi, confrontarsi, riflettere la propria immagine per costruire assieme le reciproche identità.

Tutto sciolto nel click ad un link, nel post, nell’agonia del like, nelle visualizzazioni.

Ma la realtà, quella che ci mette in gioco con tutti i cinque sensi, è arrivata a bussare alla nostra porta.

Chiudendola da fuori, con noi dentro.

Sta a noi decidere se attendere il tempo necessario per riaprirla e cosa fare una volta usciti da questa emergenza collettiva.

La posta in gioco è altissima, anzi la più alta.
E’ una questione di vita e di morte, se riusciamo a stare in casa, fermi, in contatto con noi stessi, rimaniamo in vita, se non riusciamo a riflettere, annoiarci, riattivando un dialogo interiore dimenticato, per riprendere a sognare un futuro diverso, e non riusciamo a far altro che aprire quella porta per uscire, scappare, senza meta, andremo incontro al pericolo fatale. Alla morte.

Stare a casa per salvare un altra persona come noi. 

Ma questa volta non siamo di fronte ad un virus che ci porterà a sentirci falsamente vivi, ma ad un virus che ci porterà a correre il pericolo di morire veramente, o di essere la causa della morte di chi non conosciamo e non abbiamo mai incontrato, persi nella perenne connessione.

Come se la nuova realtà ci dicesse: ora vediamo a che punto siamo, la  sfida è fuori dallo schermo.

Hai voglia di tornare, stando fermo, nel novecento, quando le uniche piattaforme social erano l’Altro e la Realtà?

Riesci a pensare ad una vita diversa? Con le mani libere, la mente, gli occhi, i pensieri, al di fuori di un device?

Se ci riuscirai ti salverai, se non ti sarà possibile alzare lo sguardo e entrare nella dimensione del Noi, non ti rimarrà altro che essere in balia del Coronavirus.
Inoltre, ricordati, niente sarà più come prima.

L’inizio di questa sfida è una fermata obbligatoria.

Il coronavirus ci inchioda in casa, in un sottovuoto dal quale possiamo tentare di divincolarci, mettendoci nuovamente in contatto con la realtà, quella in cui siamo nati e cresciuti noi figli del novecento.
Senza sconti.
Si ritorna a casa.
Inseriti in un percorso tutto da scoprire e conquistare.

Nell’incontro sconosciuto di due generazioni mai così distanti come in questo momento storico.

Quella dei genitori, l’ultima nata, cresciuta e vissuta off-line, figli degli anni ’80, e i millenians, i nativi digitali, i figli di google, instagram, youtube, twich, sospesi e soli su un isola digitale che chiede per la sopravvivenza di eliminarsi uno con l’altro, per sentirsi vincitori nel momento in cui si sarà riusciti a rimanere soli al mondo.

Fortnight è arrivato tra di noi, è uscito dallo schermo lasciando a noi la scelta.
Il CORONAVIRUS ci sta chiamando alle armi. Ognuno è una skin precipitata in un batter di ciglia sull’isola che non c’è, o non sappiamo più dove sia.

La nostra vita, la creazione di un personale percorso, nella riattivazione di un viaggio dell’eroe, impossibile da vivere rimanendo in una dimensione digitale.

Si vince tornando all’analogico o quantomeno rivalutando il digitale.

Una vita in cui si procede per analogie, in cui si cresce in relazione con realtà che rimandano ad altre realtà, per crearne sempre nuove, nel ricordo che permette di sognare un futuro. Nella corrispondenza, nella reciprocità.
Un movimento nella continuità, questa l’alternativa al digitale che inchioda e riduce tutto ad un numero, senza se e senza ma.

In un viaggio, nell’analogia di quello già fatto dai nostri padri, si procede nella ricerca di identità.
Un processo di trasformazione fatto di idealizzazioni, disillusioni, e creazione di un percorso originale diverso da quello da cui siamo partiti.

Nel viaggio dell’eroe tutto ciò viene ad assumere una forma artistica.

Che permette di diventare gli autori del proprio destino, non più un numero, ma procedendo coraggiosamente con lo sguardo nuovamente rivolto ad orizzonti inarrivabili, ma affascinanti, per trasformare un’analogia, che si è resa consapevole, nella creazione della propria unicità.

Solo nella sofferenza tutto ciò è possibile, nella crisi che tutto muove permettendo il cambiamento.

Ma cosa intendiamo per “viaggio dell’eroe”?

“Un viaggio dell’eroe fondamentalmente interiore, un viaggio verso profondità in cui oscure resistenze vengono vinte e resuscitano poteri a lungo dimenticati per essere messi a disposizione della trasfigurazione del mondo. In un viaggio che non ha per scopo la conquista, ma la riconquista, non la scoperta, ma la riscoperta.

Nel coraggio di affrontare il periglioso viaggio, nella riattivazione di un eroe in noi, simbolo di un’immagine divina e redentrice che è nascosta in ognuno di noi e che aspetta solo di essere trovata e riportata in vita.”

Joseph Cambpell (1953)

Che fare, dunque? Ci direbbe Tolstoj.

E lo stesso Tolstoj, trovatosi in una situazione simile, nello sgomento dell’entrata in contatto con una realtà sconosciuta, che ha cercato di trovare una risposta.

“Mai in vita mia, avevo abitato in città”. Con queste parole Tolstoj, nel 1882, ci apre ad una riflessione severa, onesta, calata in una nuova realtà, sul destino e il ruolo dell’uomo nella nuova condizione umana che era stato chiamato a studiare la città, il passaggio dalla campagna alla realtà urbana, il ruolo dell’intellettuale che mai sino ad allora era stato chiamato in causa per “sporcarsi le mani” nell’educazione dei nuovi poveri.
Come posso io, che non ho mai lavorato, aiutare l’orfanello adottato, a crescere, ed insegnargli l’arte di vivere, a prendere la propria vita in mano? Si chiede.
Come reinventarsi in questa nuova avventura?.

Come ripensarsi in questo mondo fatto di “condivisioni “ e “amicizie” fake, in cui l’assenza e la presenza dell’Altro sono confuse con la perenne connessione, lasciandoci in una solitudine anch’essa palesemente FAKE.

La quarantena è un’occasione unica per cercare la risposta, come fece Tolstoj, e questa emergenza sanitaria ci sta proponendolo stesso dilemma.

Torniamo alla scelta da fare, che Tolstoj si propose di affrontare di fronte alla nuova realtà, in cui anche noi, come lui allora, siamo stati catapultati.

Ora la scelta è un’altra, ma similmente ad allora, vitale.

Prendere in mano il joystick, lo smartphone, il tablet, il mouse o la nostra vita? 

Perché nel novecento non c’era scelta.

Si viveva in prospettiva, si pensava sin da piccoli a “che fare, dunque?”. L’alternativa era solamente una: Iniziare un viaggio, sognando un futuro migliore.
Ora, costretti in casa, potremmo riprendere la prospettiva, come se fossimo arrivati in una stazione che propone un viaggio affascinante, che altro non è che il ritorno al passato.

Cosi Lev Nikolaevic,  coinvolto nel censimento della nuova città, si pose la domanda e cercò la risposta.
Sconvolto da una realtà che lo mise a nudo, Tolstoj scoprì una folla affamata, decine di migliaia di persone, ci dice.
Mentre altre migliaia, come lui, si abbuffavano di filetto e storione.
E sente forte un peso, complice di un delitto che è quello del lusso.

Ogni sera al tramonto Tolstoj si recava alla Casa Ržanov.
Gli inquilini del caseggiato erano lavoratori e brava gente, ma l’aiuto di cui necessitavano non consisteva in un contributo in denaro, bensì in tempo e cure.
Erano spesso persone che avevano perso una condizione agiata e speravano ancora di riprendersela.
Questa la condizione in cui ci troveremo all’uscita del tunnel in cui il coronavirus ci ha inserito.

Per cui, non sarebbe bastato sfamarli, ma era necessario curare il loro stomaco viziato. Infine, c’erano le ‘donne perdute’, e tantissimi bambini, orfani o figli di prostitute.

È così, che decide di portarsi a casa uno di loro: 

«È facile prendersi in casa il bambino di una povera prostituta e, avendone i mezzi, lavarlo, rivestirlo di abiti decenti, sfamarlo e anche farlo studiare, molto facile, ma insegnargli a guadagnarsi il pane per noi, che nulla facciamo per procurarcelo, è non solo difficile, ma addirittura impossibile […]».

“E pure, è difficile per un ricco individuare chi ha realmente bisogno di aiuto. E allo stesso tempo, per un ricco privarsi del  superfluo.”

Privarsi del superfluo.

Questo appare il punto, un superfluo che nell’era digitale si è trasformato in “necessario”.

Un fatale appiattimento, una pericolosa deriva, che limita l’orizzonte alla barra di ricerca delle piattaforme digitali.

Nell’assenza di una riflessione delle nostre intenzioni, espressioni, pulsioni, emozioni, derivante dalla assenza di un dialogo e di conseguenza la possibilità di narrazione, la costruzione di un percorso di trasformazione, il viaggio dell’eroe che permette di sperimentarsi, conoscersi, crescere, cambiare le nostre prospettive e regolarle in corso d’opera.

Nell’invio di energia su una superficie che riflette e ci rimanda uguale o maggiore energia può essere definita la dinamica intrinseca della “riflessione” che comporta la presenza di un Altro a cui inviare l’espressione della nostra umanità, del nostro essere reciprocamente al mondo.

Narrazione che comporta la fatica della progettualità, dell’accettazione del rischio del fallimento, coraggiosamente.

La creazione di un percorso. Soprattutto e fondamentalmente di trasformazione.

Questa la grande occasione che la quarantena ci propone.

Ritornare a camminare.

Riprendere il cammino.

Per far si che nulla sia più come prima.

“Il privilegio di una vita è essere chi tu sei”.

“La caverna nella quale hai paura di entrare ha il tesoro che stai cercando”.

Joseph Campbell

Giovanni Tommasini

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